CAPITALI IN FARMACIA: LOGICA DEL PROFITTO O LOGICA DEL PAZIENTE?

Il disegno di legge sulla concorrenza varato dal governo ha iniziato l’iter parlamentare per la trasformazione in legge dello Stato. Le misure previste da questo disegno di legge per incrementare la concorrenza nella distribuzione farmaceutica continuano ad essere oggetto di ampie discussioni. Una delle norme più controverse è quella che consente alle società di capitali di essere titolari di farmacie, senza peraltro stabilire l’obbligatoria presenza nella compagine societaria di un farmacista abilitato. Dunque, se il disegno di legge dovesse essere approvato dal Parlamento, le farmacie potrebbero in futuro essere possedute da soggetti non farmacisti.
E’ bene precisare subito che il ruolo del farmacista nella dispensazione dei medicinali resta centrale anche secondo le previsioni del disegno di legge, il quale conferma che i direttori delle farmacie possedute dalle società di capitali debbono necessariamente essere farmacisti abilitati. Cosicchè, a prescindere dal soggetto titolare della farmacia (farmacista o società di capitali), la salute e la sicurezza dei cittadini che acquistano i medicinali risulterebbero comunque salvaguardate.
Se è quindi vero che nulla cambierebbe quanto alle modalità di dispensazione del medicinale, è però altrettanto vero che l’ingresso di soci di puro capitale nelle farmacie non resterebbe privo di conseguenze. Di certo un primo effetto positivo per i cittadini sarebbe la diminuzione dei prezzi di vendita al pubblico di determinati medicinali, che potrebbero con maggior facilità essere acquistati dalle società titolari di farmacie in grandi quantità, e quindi con sconti cospicui. Inoltre i capitali potrebbero costituire una sorta di “polmone finanziario” per le farmacie che si trovano in difficoltà economiche a causa dei grossi ritardi delle ASL nell’effettuare i rimborsi dei medicinali a carico del Servizio Sanitario Nazionale.
A fronte però di questi indubbi vantaggi, vi sono alcuni rischi che non vanno sottovalutati e di cui il legislatore dovrebbe tenere conto in sede di elaborazione del testo definitivo della legge in questione. In primo luogo, c’è il pericolo che la presenza sul mercato delle grandi società metta in serie difficoltà le piccole farmacie (come fra l’altro quelle rurali) che potrebbero non essere in grado di competere con le società stesse: è evidente che una simile difficoltà metterebbe addirittura a rischio la permanenza sul mercato di queste piccole realtà, con il conseguente, inevitabile pregiudizio dei cittadini destinatari del servizio. In secondo luogo, non in tutti i casi l’abbassamento del prezzo dei medicinali si risolve in un vantaggio diretto per i cittadini. Il prezzo più basso di taluni medicinali di largo consumo (come ad esempio gli antinfiammatori) potrebbe, sia pur indirettamente, consentirne un maggior uso, e quindi un abuso. Il che costituirebbe un potenziale danno per la salute dei cittadini (con costi sanitari che andrebbero a rifluire sul Servizio Sanitario Nazionale). Da ultimo, va considerato quello che è forse il pericolo più grande (e al quale il legislatore dovrà porre maggiore attenzione): le farmacie di impronta marcatamente capitalistica potrebbero persino, per esigenze di bilancio, favorire la vendita di medicinali più redditizi anziché quella di medicinali egualmente o anche più utili, ma meno redditizi. In tal modo l’ingresso massiccio dei capitali nelle farmacie rischierebbe di portare al centro dell’attività di distribuzione dei medicinali la pura logica del mercato e del profitto, anche a scapito della salute del paziente, ossia dell’obiettivo che il servizio pubblico farmaceutico dovrebbe istituzionalmente perseguire.

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